Dressed in chills and fiery red petals,
I come to you once again.
Scratched, stabbed by a mad desire
and an ineffable converging of spells,
I want to retrace that path of alchemy
and resurrect that moment,
stripped of everything but the
overpower of beauty
that hurts my eyes in yours.
It's all written there,
all there, but I can't talk about it,
just feel it.
Vestita di brividi e petali rosso fuoco,
vengo ancora una volta a te.
Graffiata, trafitta da un desiderio folle
e da un convergere ineffabile di incantesimi,
voglio ripercorrere quel sentiero di alchimie
e resuscitare quel momento,
spogliata di tutto tranne che del
prepotere della bellezza
che ferisce i miei occhi nei tuoi.
E’ tutto scritto lì,
tutto lì, ma non so parlarne,
solo sentire.
In ogni angolo,
in ogni virgola
e in ogni silenzio
di me trovi una storia.
Come il muscolo possente
dei movimenti di Michelangelo,
esce e guizza la mia verità.
Autentico ogni racconto,
ogni verso,
anche nella dicotomia,
anzi proprio per questo.
Sfioramenti e atti di forza
insieme,
come in un'utopica armonia.
Voci dissonanti come
in un accordo di nona minore
narrano storie corali
in un intreccio ignaro.
E mi agisci,
mondo racchiuso
nell'aura somatica,
e ti supero,
molteplicità del passato,
con il vento del futuro,
e mi ascolti, rapito.
Quasi fuori tempo massimo
per uno spiraglio di luce,
mi dimeno nella fissità degli eventi,
implorando la sincronicità.
L'impazienza spinge dentro agli organi.
Sento il rischio di rinascere e ricadere,
sento l'entità antropomorfa
che esige la pienezza
e mi rimesta nell'abbandono delle corazze.
Integro senza sosta e sono ingorda,
ingorda con un perenne senso di vuoto.
Mi manca tutto e voglio tutto,
neanche un frammento di meno!
Fuoco che arde ma non trova spazio,
conosce solo la potenza dello scoppio
e viene sedato da un'ondata di inutilità,
di mancanza di energia che smorza
più dell'acqua.
Ciò che avvampa non trova più
un collocamento, se non dentro
le viscere e strugge
i pensieri che si consumano
in un grigiore di cenere
e polvere sottile cancerogena,
che è avvolgente manto
e coltre di asfissia.
E, dopo implosioni squassanti,
arriva la corrosione lenta, silente,
come uno stillicidio di piccole dosi
che non lasciano traccia,
se non agli occhi
di chi è pronto a cogliere i segni
di un'anima minata
dai desideri trasgrediti
dagli assassini e i persecutori
della libertà dell'estro.
C’era una volta una farfalla cui avevano rovinato un’ala e che decise di tornare a essere bruco.
Nel suo rinnovato stato di larva, si sentiva goffa e deforme e, allora, decise di rifugiarsi ancora nello stato di uovo. Lì dentro, a volte, aveva la sensazione di sentirsi protetta, altre, di essere in una prigione.
Trascorse molti anni nell’incertezza di che stato assumere, ma ogni volta che il desiderio di riprovare a essere farfalla la coglieva, si diceva che l’impresa era troppo rischiosa e che, se, in fondo, non ne aveva ancora avuto il coraggio, era solo perché non era mai riuscita a trovare una farfalla così bella e meritevole, a cui vivere accanto e che valesse una simile impresa.
Infatti il mondo era pieno di cose grigie, buie, cupe, almeno così lo facevano apparire i suoi occhi da dietro il suo involucro.
Nel corso degli anni, per poter conoscere le farfalle che le si avvicinavano, si spinse fino a diventare ninfa, ma nonostante i colori vivaci di queste e il loro leggiadro agitarsi al vento, conoscendole, riusciva sempre a trovare in loro dei difetti.
Finalmente, un giorno, incontrò una farfalla, in cui non riuscì mai a trovare una sola imperfezione. Per questo cominciò a spaventarsi e a pensare che, sicuramente, se avesse deciso di tornare a essere lepidottero per vivere accanto a lei, sarebbe stato abbandonato.
Mr Christhmas,
the old man with the silver bart,
never passes through
the fields of boredom.
Fir trees loosing their needles,
under the weight of the lights.
It still burns, deep down,
this glim, trembling in awe of you.
Wadding drowns out the heartbeats
in the ears of the deaf
or was it maybe snow?
Come, I am waiting for you
Mr. Christhmas!
My letter to you is still sealed,
there on the table.
I am cocooning myself now,
in front of the window,
immaculate snowflakes,
stolen from the countryside
adorning my loose air,
times of child flowing
before my eyes.
Come, before the rut catches me!
Stumps being consumed in the fireplace,
.....me waiting your return,
his one.
Il Sig. Natale,
il vecchio dalla barba argentea
non passa mai nei campi della noia.
Gli abeti perdono gli aghi
sotto il peso delle luci.
Arde in fondo ancora questo lume,
tremulo di te.
Ovatta copre i battiti del cuore
alle orecchie dei sordi,
o forse era neve?
Vieni, ti aspetto Sig. Natale!
La mia lettera è ancora lì,
sigillata, sopra al tavolo.
Mi dondolo davanti alla finestra,
i capelli sciolti ornati
di fiocchi candidi
rubati alla campagna.
I tempi di bambina corrono
davanti ai miei occhi.
Vieni, prima che mi sorprenda
la consuetudine!
I ceppi si consumano nel camino
e io aspetto il tuo, il suo ritorno...
Padre, ti scrivo e ti parlo e ti cerco e non so perché! E parlo con le tue cose o sono loro che parlano con me e non si tratta di discorsi standard, no.
Sono dentro al tuo ricovero degli attrezzi, dove tu ti rifugiavi dalla mamma.
Praticamente eri sempre là, oppure nell’orto, che era pur sempre un rifugio.
Ho provato a parlare con te anche sulla tua tomba, ma non è lo stesso.
So che lì si trovano i tuoi amabili resti, ma sento forte e nitida la tua voce che mi sussurra attraverso le tue cose. Non ho bisogno di sedute spiritiche per ricongiungermi a te.
Con Martello:
– Ehi, sento la mancanza delle mani forti di tuo padre!
– Che ha fatto con te? Sovvienimene…
– Mi ha battuto sul ferro per forgiare i tuoi disegni di ghirigori fioriti per
la testiera del tuo letto.
– Hai sentito la consistenza dei suoi calli?
– Ci sono ancora le squame della sua pelle sul mio manico, toccami pure!
Con Scalpello:
– Sui pezzi di tronchi d’albero ero sempre conficcato! Ad intagliare occhi,
bocche e nasi.
– Si, me li ricordo, i suoi simpatici musi d’albero.
– Non erano solo musi, erano anche sfoghi di rabbia!
Con Cacciavite:
– Sono state più le volte che ho girato a vuoto che altro…
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che a volte la sua testa era talmente piena di problemi, da non
avere neanche lo spazio per concentrarsi su un giro di vite.
Padre, perdonami per essermi ostinata a vederti sempre e solo come un padre e non come un essere umano intriso di fragilità fino al midollo.
Mi vedo ancora mentre lascio cadere dalle mie mani briciole di terra sul legno della bara e vorrei davvero molto calarmi negli inferi con te per punirmi, per non aver accettato di farti da madre, di consolare le tue pene.
Mi sono accontentata di sbattere i piedi per terra, di pretendere, di polemizzare, persino di mettermi in competizione con mia madre per rubare le tue di attenzioni, il tuo di tempo.
Padre ti prego perdonami, perché non credo che io riuscirò a farlo.
Perdonami per non averti mai amato.
Ma sei vuoi posso cominciare a farlo ora: mi ci è voluto tanto, troppo tempo per capire.
Ieri, alla conclusione ad un ciclo di dieci sedute di ipnosi, ho fatto l’esercizio della sedia che scotta. Ho interpretato il ruolo di me stessa ed il tuo, vedendoti per la prima volta.
Lo strizza cervelli mi ha dovuta strizzare proprio bene, ma poi, alla fine, un po’ di succo è uscito!
Tante cose sono riemerse: una mi ha davvero colpita.
Quando avevo 11 anni hai letto il mio diario e io non te l’ho mai perdonato.
Per questo ora lascio questo nostro nuovo diario, aperto, sopra il tuo tavolo da lavoro.
Potrai scriverci, leggerlo, farne ciò che vuoi.
Ora vado, che la creatura che cresce dentro di me scalcia e vuole riposo.
Nascerà a novembre, magari il giorno di San Martino, proprio come te e infatti è un maschio: Scorpione, mito di morte e rinascita che si evolve in un ciclo eterno.
Ora mi vedrai di spalle, mentre torno a casa.
Ti ho odiato per esserci invadentemente stato e per le tue assenze poco calibrate.
Non so per quale mistero ti levi dal sepolcro per camminare di nuovo sopra la tua amata terra, a fianco e dietro di me.
Lacrime che nutrono la mia pelle e la tua terra.
Guardo attraverso di loro vigne che si ostinano a vivere nonostante la mancanza delle tue cure.
Odoro il tuo orto, mentre zappi e semini, fantasma rassicurante.
Speranza coltivata per un tempo indefinito
fa specchio all’impossibilità
di accettare l’inaccettabile,
si dissolve in illusione,
gioca di similitudine
con le bolle di un bimbo
che non ha più infanzia.
Noi, schiacciati in un ingranaggio
di nome ghetto,
davanti al quale si ergono
muri invisibili, fatti di
giudizi affrettati, salari miseri,
risate di scherno.
Noi, anime alienate,
in mezzo a valige sfatte
e progetti infranti.
I sapori si dimenticano
dolorosamente in mezzo agli indigeni.
Fame di sole,
noia di pioggia che picchietta
leggera, ma insistente,
fino a marcire le fibre
di un’esistenza fin troppo lontana.